Ingrediente della Parità: la conciliazione famiglia-lavoro
Le donne sono a lungo solo state considerate come concorrenti sul mercato del lavoro, e le lotte dei sindacati si concentravano sull’ottenere buoni salari per i padri di famiglia, di modo che le donne potessero stare a casa a badare alla famiglia.
Grazie alle nostre lotte, abbiamo però rimesso in discussione i rapporti di potere, aperto gli occhi a molti e fatto capire che la parità è un’opportunità per tutti.
Ad esempio, la partecipazione femminile al mondo del lavoro accresce la produttività e della società. Un recente studio McKinsey che ha quantificato l’impatto macroeconomico dell’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro a condizioni di accesso paragonabili a quelle degli uomini: in 10 anni, questo ha significato un aumento di PIL tra il 9 e il 23% per i paesi dell’Europa Occidentale.
Però, perché le donne possano andare a lavorare, devono poter contare su strutture competenti, reattive ed economicamente sostenibili per la cura dei propri figli e dei propri cari. Attualmente però la cura extrafamigliare dei bambini in Svizzera è molto costosa, quindi un peso per le famiglie, e le lavoratrici delle strutture d’accoglienza sono di regola sottopagate, stressate e spesso ancora in formazione. Questo non invoglia certo le donne ad affidare i bimbi a terzi per reintegrare il mondo del lavoro. Inoltre, sono necessarie misure per facilitare l’assistenza a parenti e alleviare le persone che se ne fanno carico.
Non bisogna poi dimenticare che sia la cura dei bambini, sia dei malati non sono solo un affare privato, ma bensì un compito dello Stato. Di conseguenza le tariffe dovrebbero essere abbordabili e questi servizi dovrebbero essere finanziati dal pubblico.
Investimenti mirati nel settore della cura non aiuterebbero solo a risolvere ingiustizie di genere private, ma promuoverebbero anche l’integrazione professionale delle donne, creerebbero nuovi posti di lavoro e sarebbero una risposta corretta alle sfide di una società che invecchia e il cui fabbisogno di cure aumenta.
Bisognerebbe inoltre far capire a certi che la riduzione del tempo di lavoro non significa diminuire la produttività: questa andrebbe invece a vantaggio di tutti perché aumenterebbe la qualità del lavoro e il benessere degli impiegati, i quali sarebbero meno stressati, felici e meglio disposti verso il lavoro e il datore. Ne è un esempio la Svezia, dove è stata testata la settimana di 30 ore con riscontri positivi e dove alcune aziende l’hanno implementata, notando che venivano così eliminati gli sprechi di tempo e che gli impiegati erano più felici ed efficienti e che quindi la produttività non veniva alterata. Anzi: le assenze sono scese circa del 25% e i dipendenti apprezzano molto di più il loro datore di lavoro!
Lorena Gianolli, VPOD