AttivarsiFemminismoJ'accuse

Il maschio bianco alfa è in pericolo. Tutta colpa delle femministe. Potremmo definire così, correndo consapevolmente il rischio della caricatura, la risposta patriarcale al movimento #MeToo, legata ultimamente all’elezione di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema USA. Una risposta patriarcale carica di sessismo e misoginia ostentata con malcelato orgoglio. Il volgare sessismo di Trump ha così sdoganato definitivamente un sistema patriarcale che desidera “rimettere le donne al loro posto”. Per le donne che desiderano affermarsi il consiglio paternalista è ovviamente quello di abbandonare il femminismo, come qualcosa di anacronistico ed evidentemente poco attraente, e di farsi strada con la compiacenza e l’approvazione del maschio.
Vecchi storie. Eh sì, tremendamente. Vecchie storie che tornano a galla rinvigorite e che attestano un pesante clima di restaurazione culturale, probabilmente mai del tutto sopito dal Movimento di liberazione della donna degli anni Settanta. Questo clima ostile conferma che il corpo delle donne – che le femministe hanno voluto e vogliono tuttora libero e liberato – è merce. Ed è qui che la narrazione dei media diventa complice nel divulgare pregiudizi, nel diffondere immagini sessiste, nell’alimentare la rappresentazione della donna sessualizzata e mercificata in nome del mercato, del profitto, dell’audience, dei clic sulla tastiera. Ed è qui che prende forza il “J’accuse” non solo di molte giornaliste, ma anche di donne in carne e ossa stanche di essere un bersaglio mobile.
Programmi d’intrattenimento – compresi quelli velleitariamente intelligenti – spot pubblicitari, cartellonistica e carta stampata, propongono quotidianamente la classica e logora dicotomia: donna angelo del focolare/ donna bella e voluttuosa. In un contesto culturale dove all’immagine si attribuisce ossessivamente un’esasperata importanza, le donne vengono spinte nel ruolo di seduttrici, eternamente giovani, desiderabili. Come se gli anni che passano – e passano anche per gli uomini che si credono immarcescibili – fossero qualcosa di cui vergognarsi.
Sono passati quasi dieci anni dalla presentazione del documentario di Lorella Zanardo “Il Corpo delle donne (maggio del 2009). Dieci anni, eppure, nulla sembra essere cambiato. I corpi delle donne continuano a essere utilizzati per vendere e promuovere qualunque cosa. La donna è quasi sempre in una posizione subalterna ed è gestita da una figura maschile ordinante; spesso ogni parte del suo corpo viene inquadrata ripetutamente e insistentemente. Come se l’unico scopo della presenza di una donna all’interno di una trasmissione fosse solo o principalmente decorativo.
Il continuo martellamento su ormai tutti i canali di comunicazione, ha normalizzato il linguaggio sessista fino a giustificarne e a legittimarne l’uso. E’ la retorica del testosterone: parlare così, quindi pensare così, ti rende parte del gruppo dominante, fa di te una persona moderna e brillante. “Il sessismo attraverso la lingua – ha spiegato una filosofa italiana – penetra così tanto nel subconscio fino a scomparire come violenza, aggressione, umiliazione, disumanizzazione, quale invece è”.
Scrive la femminista Monica Lanfranco: “La sottovalutazione e il disconoscimento degli effetti e dei pericoli culturali, sociali, simbolici e pratici del sessismo non si trova solo in ambienti aggressivi e totalmente privi di minimi requisiti democratici che eleggono, per esempio, il quotidiano Libero come loro megafono”. In effetti il sessismo è sulle labbra anche di uomini distinti, o presunti tali, indipendentemente dal colore politico. Triste, ma profondamente vero.
Il linguaggio è la prima e più potente forma di influenza sociale: la politica ha una grande responsabilità, così come i media e le istituzioni. Il linguaggio politico e mediatico degli ultimi vent’anni mostra quanto nessuno di noi sia al riparo dall’imbarbarimento verbale. Oggi ci pare accettabile ciò che invece dovrebbe ancora indignarci. Il lento covare di un silenzioso rancore ha alimentato insofferenza, rabbia, delusione e razzismo veicolati in modo sguaiato e volgare non solo tramite mezzi di comunicazione e social network, ma anche attraverso la minuta quotidianità.
Già negli anni Novanta la femminista americana Susan Faludi denunciava il “backlash” (contraccolpo), ossia la diffusione di un sentimento ostile alle donne in lotta per i loro diritti e per il rispetto dei loro diritti. Vent’anni dopo, lo scandalo #Me Too ci dice che per le donne è urgente trovare nuovi modi di difendere i propri diritti per se stesse, per le loro figlie, per i loro compagni e figli, “perché abbiamo bisogno di ricordare anche a loro – insiste Faludi – come il femminismo ha migliorato e continuerà a migliorare le loro, le nostre vite”.

di Françoise Gehring, giornalista

apparso sul Corriere del Ticino, 24 ottobre 2018