La foto del papà sotto il cuscino, ogni sera prima di addormentarmi: il ricordo più vivo della mia infanzia. Non era facile per una bambina capire perché non potevo avere mio padre a casa con noi, tutti i giorni, tutte le sere per il bacio della buona notte.
Ed è per questo che alla parola «migrante» associo sempre questa immagine. Dalla Turchia ho poi finalmente potuto partire anch’io: il tanto atteso «ricongiungimento famigliare» era stato reso possibile. Ma la vita non è mai una strada lineare. Essere di nuovo «famiglia», costruire il legame affettivo con colui che non era mai a casa quando avevo bisogno ha rappresentato per me un percorso difficile. La nostalgia dell’infanzia si era trasformata in rancore, rabbia. Ho dovuto imparare a costruire legami affettivi nuovi nella quotidianità e in un mondo tutto nuovo. La fatica dell’inserimento sociale, a scuola, nel quartiere, rappresentano per chi non è del luogo un mare di emozioni e di frustrazioni. Ho dovuto infatti accettare il peso del nome che porto, una specie di bollo perché può sembrare banale, ma essere stranieri vi fa sentire diversi e anche inadeguati. Non è facile superare gli ostacoli della crescita per ogni ragazza e un ragazzo ma se hai la nazionalità turca, questo lo è molto di più. Nascono dubbi e ed è difficile mantenere l’autostima, aspetti che portano a fare scelte di vita sbagliate.
Con questo bagaglio di incertezze sono diventata donna. Mi sono impegnata a fondo, sicuramente più delle mie coetanee, per avere una professione e ancora oggi, sul lavoro, credo di dare sempre il massimo per farmi accettare, ogni giorno. Ora mi sento un po’ di più a casa. Guardo avanti ma penso sempre a coloro che sono costretti a lasciare gli affetti e partire. Sono giovani, donne e uomini ai quali va tutta la mia solidarietà e il mio augurio affinché possano trovare accoglienza non solo legale ma anche comprensione per il lavoro emotivo che accompagna sempre in questo percorso.
Per questo manifesterò a Bellinzona il 14 ottobre.
GÜLSÜM DEMIRCI, LUGANO