La parità salariale tra donna e uomo è stata al centro delle rivendicazioni del primo maggio in Svizzera con il motto “Parità salariale. Punto e basta”. Punto, poiché le statistiche riportano a fine febbraio di ogni anno una realtà discriminatoria gravida di conseguenze negative per le donne, le famiglie e lo Stato. Calcolando a quanto ammonta il mancato guadagno delle donne in Svizzera, solo prendendo in considerazione la parte considerata non spiegabile (ma non significa che la parte spiegabile non sia discriminatoria) arriviamo a 7,7 miliardi che pesano sul potere di acquisto delle famiglie, sulla previdenza delle donne, sulle possibilità di scelte, sull’economia in generale.
Basta! Basta perché da quando ho memoria politica, la questione della parità salariale ha accompagnato le nostre lotte e, nonostante la modifica costituzionale del 1981 e la legge parità, siamo sempre al punto di partenza (o quasi).
Ma quali sono gli ostacoli alla parità salariale? Con quali invisibili fili si intreccia questa discriminazione con le altre che le donne vivono nella vita professionale?
Una possibile risposta emerge dalla scelta di costrutto sociale utilizzato in relazione ai salari di uomini e donne da parte del professor Sergio Rossi nella sua relazione tenuta in occasione dell’interessante mattinata di studio organizzata dalla Commissione cantonale per le pari opportunità tra i sessi sul tema “La parità incompiuta. quanto pesano gli stereotipi di genere sulla discriminazione delle donne?” quale riflessione alla riedizione statistica “Le Cifre della parità” (21 aprile 2018).
Nel suo intervento, pur difendendo anche sul piano economico la necessità della parità salariale, l’economista ha utilizzato in più occasioni la categoria del “salario della donna come complemento a quello del marito” quale modello economico in atto. Forse è proprio qui il bandolo della matassa: se la lettura del salario femminile viene ancora fatta in ottica di “complementarietà”, come può cambiare la percezione della realtà da parte degli imprenditori e della classe politica?
La mentalità soggiacente al salario complementare a quello del marito è quella “dell’uomo che porta a casa il pane” e a corollario di questa funzione all’uomo si era riconosciuto il ruolo di capofamiglia e una serie di diritti specifici sulle scelte familiari, che – grazie alla votazione popolare del 1983 sulla nuova legge matrimoniale – non esistono più. In quel contesto di famiglia tradizionale il salario femminile poteva rappresentare un “complemento”, solo nella misura in cui rispondeva a necessità economiche della famiglia. Le donne entravano in aziende a forte prevalenza femminile, pagate poco e senza alcuna qualifica, un esercito di lavoratrici a basso costo pronto e flessibile sul mercato. Erano anche i tempi che se una donna lavora perché aveva ottenuto un diploma e aspirava all’autonomia economica (sempre con salari inferiori), il matrimonio le faceva perdere il diritto al lavoro e, quando questo non è stato più possibile per legge, attentare all’accesso al lavoro delle donne ritenendolo subalterno sono state le battaglie politiche contro il “doppio salario”.
Quel modello familiare che reggeva la realtà lavorativa delle donne, non ha più un corrispettivo nella realtà di oggi e probabilmente neppure negli anni del dopoguerra poteva considerarsi onnicomprensivo della complessa attività sul mercato del lavoro delle donne. Rileggere la realtà di uomini e donne che lavorano utilizzando ancora quel tipo di occhiali rende ciechi ai fenomeni sociali che riguardano le donne (e gli uomini) che sempre più hanno un impatto sui cambiamenti economici, come ad esempio l’aumento del livello formativo femminile, la conduzione familiare di un solo genitore (in prevalenza le madri), la scelta di non sposarsi e/o condurre una vita da sole (ormai 1/3 delle economie domestiche), l’aumento dei patrimoni in mano femminile.
Per me quel Punto e Basta! è anche un monito alla semplificazione politica che viene applicata ai rapporti sociali e di genere in economia e nella società. Se nel lavoro continuiamo a essere considerate delle “ospiti” tollerate, il cui salario è complementare a quello di qualcun altro, perché in fondo il nostro ruolo principale nella società è quello dell’allevamento dei figli, allora ogni sforzo e ogni conquista sarà vanificata al primo colpo di vento. Servono nuovi occhiali e nuove pratiche di lotta per rileggere anche nel mondo del lavoro i rapporti di genere.
Pepita Vera Conforti,
Copresidente Coordinamento donne della sinistra