Intervista con Chiara Landi apparsa su ForumAlternativo il 7.03.2018 e sul Quaderno 2/2018:

07 marzo 2018
Sconfiggere la violenza economica per liberare la donna

di Red

Intervista a Chiara Landi, sindacalista di Unia “… arrivare a uno sciopero generale…” “… tutte le attività produttive e riproduttive…” “… senza le donne, si ferma tutto…”

Chiara, quando potremo dire che la donna sarà veramente libera e autonoma nelle proprie scelte?

Il fulcro dell’indipendenza di una donna è l’indipendenza economica, da cui discende la possibilità di godere di una serie di libertà oggi ancora negate. Senza una sicurezza finanziaria, dovuta a un lavoro precario, sottopagato o in nero, alla donna si nega il diritto all’autodeterminazione. La si priva, ad esempio, della libertà di lasciare il marito nel caso di violenza domestica. Se si vogliono ottenere dei progressi nel campo dell’uguaglianza, affrontare la violenza economica imposta alle donne dalla struttura del mondo del lavoro attuale è fondamentale.

Nel 1981 il principio dell’uguaglianza tra donna e uomo è entrato nella Costituzione federale. Nel 1996 è entrata in vigore la legge federale sulla parità dei sessi che vieta ogni forma di discriminazione nell’ambito dell’attività lavorativa. Oltre 20 anni dopo siamo ancora lontani dal rispetto della legge.

Sono sconcertata dalla recente decisione del Consiglio degli Stati di rinviare la già blanda proposta di revisione della Legge federale sulla parità dei sessi. Oggi, purtroppo, la disparità salariale è considerata a un problema marginale che riguarderebbe “solo” una minoranza, quando invece le sue ripercussioni ricadono sull’intera società. Non aiuta la statistica che, nel definire la disparità salariale, la divide tra quella parte cosiddetta “spiegabile” e quella “non spiegabile”. Ciò presuppone che ci siano dei motivi comprensibili e legittimi perché una donna sia pagata meno di un uomo. Ed è invece proprio nella parte definita “spiegabile” che emergono le differenze strutturali del sistema che penalizza le donne.

Puoi fare degli esempi?

Prendiamo la difficoltà nel conciliare lavoro e cura dei figli. Si dà per scontato che di questi oneri se ne debbano occupare le donne, uscendo dal mondo del lavoro. Donne dunque costrette a interrompere il loro percorso professionale o formativo perché è semplicemente “naturale ”che sia così. Mentre di naturale non vi è nulla, poiché frutto di un’imposizione del sistema. Quale soluzione sovente si vantano i benefici del tempo parziale, dimenticando di dire che per moltissime donne non si tratta di una libera scelta. La vera conquista sarebbe la riduzione del tempo di lavoro a 35 o 30 ore settimanali per uomini e donne. Ciò consentirebbe a entrambi i genitori di conciliare lavoro-famiglia. Serve a poco decretare la parità salariale se poi si priva la donna dell’indipendenza economica obbligandola a lavorare a tempo parziale.

Oltre alla chimera della parità salariale, le donne sono di gran lunga le più attive nei mestieri malpagati.

Non è possibile continuare ad accettare passivamente dei bassi salari nei settori dove la manodopera femminile è prevalente. Perché un’ora di lavoro in un ramo professionale a maggioranza femminile deve valere meno di un’ora in un settore dove lavorano più uomini? Perché lo stipendio della donna è complementare a quello principale dell’uomo, è la giustificazione ricorrente. Una giustificazione assurda che, oltre a negare l’indipendenza economica alle donne e sminuirne la dignità del valore del lavoro, genera delle conseguenze su tutta la società, maschi compresi. Degli studi hanno dimostrato che quando aumenta la presenza femminile nei settori professionali storicamente a maggioranza maschile, le condizioni di quel lavoro peggiorano, si precarizzano. Si genera dunque il paradosso che quando le donne conquistano il diritto a esercitare lo stesso mestiere di un uomo, quel lavoro sarà retribuito meno o sarà precario. E alla fine del processo, in quei lavori la presenza maschile scompare a causa delle basse retribuzioni, relegando quel mestiere alle sole donne. Un circolo vizioso nefasto che urgentemente va spezzato.

Che cosa si può e deve fare per un radicale cambiamento?

Per modificare realmente questo stato di cose, bisogna creare le condizioni per una maggiore consapevolezza sociale affinché nasca una reazione collettiva, come nel caso dei movimenti contro le molestie come “#Metoo” o ”#nonunadimeno” contro la violenza fisica subita dalle donne. Ci vuole l’impegno delle organizzazioni sindacali e politiche, che evitino gli sterili proclami e che siano in grado di provocare uno scatto collettivo. Una buona occasione sarà la mobilitazione nazionale del 22 settembre promossa dall’Unione sindacale svizzera e la volontà di arrivare a uno sciopero generale in cui le donne si astengano da tutte le attività produttive e riproduttive e da quei compiti stereotipati a cui sono state relegate. Per dimostrare che senza le donne, si ferma tutto. Senza una presa di coscienza collettiva della violenza economica sulle donne imposta dall’attuale mondo del lavoro, non ci sarà nessuna ribellione e infine, non ci sarà nessun reale progresso.

È il momento di ridare voce alle donne per dire NO alla violenza in tutte le sue forme