Femminismo

Questa riflessione – lungi dal voler essere esaustiva –  nasce da un senso di insoddisfazione rispetto ai concetti di pari opportunità, parità salariale, divieto di discriminazione e simili che incontro nella mia militanza in gruppi femministi e postmigranti, in ambito sia politico che giuridico.

Ho quindi cominciato a suggerire, nel confronto con compagne e compagni, amiche, collegh* giurist*, che non dovremmo limitarci ad obiettivi quali pari opportunità o non-discriminazione, ma puntare all’uguaglianza, obiettivo che mi pare più completo e con una maggiore carica idealistica.

E mi sono sentita dire, con sgomento o comunque con sorpresa: ma non siamo mica tutt* uguali!

In effetti, uno dei significati di “uguale” è certamente “pari di natura, qualità, quantità, grandezza, durata e simili” con un altro termine. Uguaglianza è anche la proprietà di persone o cose uguali tra di loro; uniformità; identità nel senso di essere identici. D’altra parte però, uguaglianza è un ideale etico-politico, secondo il quale tutte le persone hanno pari dignità umana e sociale e gli stessi diritti, di essere considerate alla pari di tutti gli altri esseri umani in ogni contesto, indipendentemente da stato sociale, origine, età, sesso, ecc. ecc.

Uguaglianza quindi nella differenza.

Le “pari opportunità” sono un aspetto dell’uguaglianza: secondo wikipedia, “Le pari opportunità sono un principio giuridico inteso come l’assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale o politico.” Uguale possibilità cioè di partecipazione.
Pari opportunità quindi quale uguaglianza di partenza – e qui si inseriscono le politiche di promozione della parità e per eliminare ostacoli: le quote, misure per la conciliabilità lavoro-famiglia, borse di studio per i meno abbienti, eliminazione di ostacoli architettonici per l’accesso agli edifici pubblici, misure di integrazione ecc.

L’opportunità è un’occasione, circostanza favorevole: avere, cogliere, offrire, perdere un’opportunità. Ma al di là del fatto se effettivamente posso avere le stesse possibilità di partecipazione: basta, o uguaglianza dovrebbe significare (anche) parità nei risultati? Perché questa opportunità che sarò magari in grado di cogliere, mi fa un po’ pensare alla lotteria o ai saldi: ho la stessa possibilità di te di vincere, ma c’è un solo premio, e magari qualche premio di consolazione. Allora come ci regoliamo – per fare un esempio – con la parità salariale? Basta che le donne possano avere le stesse possibilità di “vincere” come gli uomini? O è ingiusto e poco rispettoso del principio della parità – al di là del confronto tra i sessi – che alcun* guadagnano magari neppure abbastanza per vivere, e altr* possano pretendere e ricevano stipendi due, tre, cento volte superiori?

L’uguaglianza così come viene declinata alle nostre latitudini, rispettivamente – a livello legale – il divieto di discriminazione, presuppone poi un metro di paragone: per le donne, per esempio, la parità significa parità con gli uomini. Ed in effetti il femminismo emancipazionista punta sulle pari opportunità nella carriera professionale, sull’accesso al mercato del lavoro e su una ripartizione paritaria dei ruoli tra i sessi (lavoro di produzione e di riproduzione, per limitarmi a due slogan), più che su una valorizzazione – per esempio – del lavoro di cura o su un cambiamento delle regole del gioco. Rischiando di svalutare proprio il lavoro “casalingo” e quello – sia esso remunerato o meno – tradizionalmente di competenza delle donne (e in generale tutti i lavori indispensabili per la vita).

Insomma, l’uguaglianza quale principio etico e politico, se preso sul serio, mette in discussione lo stesso sistema capitalistico e ogni altro sistema basato su gerarchie e dominio.

Aggiungo che i nostri sistemi giuridici e di pensiero identificano alcuni gruppi di persone – nominati nella costituzione, in una legge, in una convenzione internazionale – che è vietato discriminare: le donne, i disabili, le persone a dipendenza del colore, gli omosessuali ecc. Oppure possiamo tentare di definire un ulteriore gruppo di “sfigati”: i lavoratori ultracinquantenni, i transgender, i precari magari, ecc. Occorre cioè sottolineare la propria diversità rispetto ad un gruppo dominante, per essere trattat* da uguale, per poter accedere ai diritti di cui gode il gruppo individuato come quello dei privilegiati. Con il rischio di cementare la diversità per la quale vengo discriminata, e di venire identificata solo con quella parte, dimenticando(mi) che sono innanzitutto un essere umano in tutta la sua complessità e sfaccettature.

Ecco che “uguaglianza” acquista il senso di rispetto della diversità nell’essenza – uguale – di essere umano.

di Rosemarie Weibel

Apparso su Voce Libertaria gennaio-marzo 2019